mercoledì 1 marzo 2017

OSCAR 2017. POLITICA E GAFFE FANNO CADERE LE STELLE (E NON SOLO QUELLE...)

Dall'alto: Giorgio Gregorini e Alessandro Bertolazzi (primo e secondo da sinistra) premiati per Suicide Squad; Alan Barillaro (a sinistra) ritira il premio per Piper; Damien Chazelle, il più giovane vincitore dell'Oscar per la migliore regia; gli attori premiati (da sinistra: Mahershala Ali, Emma Stone, Viola Davis e Casey Affleck). 


89a edizione degli Academy Award.
L'edizione che ha lanciato Fred Berger, Jordan Horowitz e Marc Platt nell'empireo dei "mainagioia".

Pensate: a presentare l'ultimo premio della serata, il più prestigioso, è stata chiamata una delle coppie più belle e glam della Hollywood anni Sessanta-Settanta: Faye Dunaway e Warren Beatty.

Quest'ultimo ha in mano la busta, la apre, la guarda perplesso, non sa cosa fare.
La porge a lei, che annuncia il miglior film: il favorito della vigilia, La La Land!

I tre di cui sopra, che ne sono i produttori, salgono sul palco e iniziano il loro discorso di ringraziamento.
Ma vengono subito interrotti: c'è stato un errore, la busta è sbagliata (in effetti era un doppione di quella che attribuiva l'Oscar per la migliore attrice protagonista ad Emma Stone. Machecacchio, Warren e Faye, ve ne sarete pure accorti, no?!): il vero vincitore è Moonlight!

Pensate alla delusione di 'sti poveracci, scippati di un sogno per colpa di una maldestra gaffe...






Il degno finale di una cerimonia dagli ascolti scarsi, moscia (Jimmy Kimmel presentatore sottotono, battute su Trump un po' scontate), che molti vorrebbero dimenticare.
A cominciare della produttrice Jan Chapman che - viva e vegeta - si è vista tra le persone decedute nell'omaggio video preparato dall'Academy (si voleva ricordare la costumista Janet Patterson, ma hanno sbagliato foto. Bell'omaggio...).

Altrettanto discutibile è l'aver voluto premiare ad ogni costo il film meno "trumpiano" e più liberal in concorso: Moonlight, diretto da un regista di colore, parla di un afroamericano che cresce in un ambiente degradato e scopre di essere omosessuale.
Pare più un dispetto al neo-Presidente degli Stati Uniti - che con le minoranze è tutt'altro che tenero - che un riconoscimento al valore artistico del film in sé: il fatto che lo si presenti come una bandiera, ossia come il primo film a tema LGBT (acronimo che sta per Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender) a vincere il massimo riconoscimento cinematografico, piuttosto che come racconto di formazione, è emblematico.

Il rischio concreto è che, nel giro di poco, nessuno si ricordi più di questa pellicola e della sua affermazione, com'è già successo al suo predecessore (che è, anche se molti di voi se lo sono dimenticato, Il Caso Spotlight, anch'esso dagli incassi molto modesti).

Il fatto è che l'America è spaccata in due e la metà che ha votato per il pittoresco magnate si sente sempre più distante e meno rappresentata da Hollywood, percepita come centro di un'élite che la disprezza e che utilizza lo showbiz come un'arma politica per colpire in una sola direzione, cercando di imporre la propria visione del mondo e i propri valori.

Se l'Academy continuerà a favorire l'aspetto "politico" dei film piuttosto che quello tecnico-artistico, lo scollamento si farà presumibilmente ancora più drammatico.






La La Land, in effetti, sembrava rappresentare maggiormente un buon compromesso tra intrattenimento e cinema d'autore, essendo una briosa e realistica storia di ambizioni e sogni di due giovani, realizzata con straordinaria maestria e interpretata in modo efficace.

Non per niente la migliore regia è stata proclamata quella di Damien Chazelle, il più giovane regista a vincere la statuetta (32 anni compiuti a Gennaio!) e già apprezzatissimo per il suo precedente - ed in effetti notevole - Whiplash (tenetelo d'occhio: capeggia la cerchia dei Jeff Nichols, dei J.C. Chandor e dei Ned Benson, ossia di un ideale gruppo di cineasti emergenti che in questi anni sta davvero portando nuova linfa ad Hollywood).

Non per niente ha trionfato in quasi tutte le competizioni internazionali, compresa quella dei Golden Globe, in cui i premi sono assegnati dalla stampa estera.

Non per niente ha vinto per fotografia e scenografia, per le belle musiche e la migliore canzone.

Non per niente ha portato il primo (e meritatissimo) Oscar a Emma Stone, che già a Venezia aveva conquistato la Coppa Volpi.

Non per niente La La Land ha incassato nel mondo così tanto e, con 6 premi su ben 14 nomination, è da considerarsi come il vero trionfatore di questa edizione e si candida a rimanere a lungo nella memoria.

Purtroppo ha pagato i sensi di colpa dell'Academy sul tema dei cosiddetti "Oscars so white", la polemica innescata negli scorsi anni - e nell'ultimo in modo particolare - a proposito della scarsa rappresentatività degli afro-americani in nomination e premiazioni.






Polemica che è risultata decisiva per la vittoria di Moonlight e per le sei nomine tra gli attori (zero nel 2016), culminate con l'affermazione più che annunciata tra i non protagonisti di Mahershala Ali (primo interprete di fede islamica ad aggiudicarsi la statuetta) e di Viola Davis (per lei un tifo sfrenato sui social).

Tra gli attori protagonisti l'hanno spuntata Emma Stone, come abbiamo visto, e Casey Affleck.

Il fratello di Ben è passato indenne dalle accuse di molestie sessuali mossegli qualche anno fa da due donne (accuse successivamente ritirate, a titolo di cronaca) e ora per lui è arrivata la definitiva consacrazione, dopo il Golden Globe, grazie al ruolo di uno zio che deve occuparsi del nipote minorenne rimasto orfano nel drammatico Manchester By The Sea, che a sorpresa ha vinto anche il prestigioso riconoscimento per la migliore sceneggiatura originale (andata al regista, Kenneth Lonergan).

Ma Affleck Jr. non è l'unico miracolato: Mel Gibson, personalmente, non ha vinto nulla, ma il suo La Battaglia di Hacksaw Ridge è riuscito a portare a casa due Oscar, per montaggio e sonoro (il montaggio sonoro è stato invece il contentino per Arrival, che partiva da 8 nomine).

A proposito, una menzione speciale va a Kevin O'Connell, tecnico del suono alla sua prima statuetta. Questa era la sua nomination numero 21 (avete letto bene: 21!): meglio tardi che mai!

Nelle agguerrite categorie degli effetti speciali e dei costumi, invece, si sono imposti rispettivamente l'adattamento in live action del cartoon disneyano Il Libro della Giungla (tratto dall'omonimo romanzo di Rudyard Kipling) e Animali Fantastici E Dove Trovarli - il quarto Oscar in carriera della costumista Colleen Atwood, nonché il primo assegnato ad un film della saga di Harry Potter.

Gianfranco Rosi non ce l'ha fatta con il suo documentario Fuocoammare, ma - adesso possiamo dirlo - non è che avesse moltissime chance: ha prevalso O.J.: Made in America e comunque, come abbiamo già visto qui, anche gli altri pretendenti erano piuttosto competitivi.






Al contrario, Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini sono riusciti a conquistare la statuetta per trucco e parrucco di Suicide Squad (cioè, rendiamoci conto: Suicide Squad è un film oscarizzato!).
Una delle poche cose veramente salvabili in una pellicola in effetti un po' kitsch, certo non la migliore tra le varie "supereroistiche" uscite lo scorso anno.

Bravissimi Alessandro e Giorgio, ma i nostri connazionali negli ultimi anni hanno sempre fatto la loro porca figura.
Vedansi Francesca Lo Schiavo e Dante Ferretti nel 2012 per la scenografia di Hugo Cabret, La Grande Bellezza nel 2014, Milena Canonero nel 2015 con Grand Budapest Hotel ed Ennio Morricone l' anno scorso per The Hateful Eight.

Siamo molto contenti anche per l'affermazione del delizioso Piper tra i corti d'animazione: a dirigerlo, l'italo-canadese Alan Barillaro.
Tra i lungometraggi è stato invece il gradevole Zootropolis a prevalere nel "derby" Disney con Oceania.

Dopo l'Oscar per il miglior film straniero nel 2016 a Il Figlio di Saul di László Nemes e il recentissimo Orso d'Oro a Testről és lélekről della cineasta Ildikó Enyedi, il dinamico e originale cinema ungherese coglie un altro alloro: tra i corti si è imposto Sing (Mindenki) del giovane Kristóf Deák, in effetti il più interessante tra le opere in competizione.

C'entra molto la politica anche relativamente ai premi per il miglior film in lingua straniera e per il miglior cortometraggio documentario.

Il regista iraniano Asghar Farhadi, al suo secondo riconoscimento dopo quello assegnato nel 2012 a Una Separazione, non ha voluto partecipare alla cerimonia per protesta contro le politiche di chiusura di Trump nei confronti delle persone provenienti da certi stati islamici, tra i quali appunto l'Iran e la Siria.

Le difficoltà che incontrano i cittadini di quest'ultimo Paese ad entrare negli USA hanno impedito, invece, agli eroici soccorritori protagonisti di The White Helmets di essere presenti alla Notte delle Stelle: che beffa, visto che il mini documentario che parla di loro ha vinto...

Insomma, politica e gaffe hanno rovinato un'edizione interessante e dato parecchi dispiaceri a persone che non se lo meritavano.

Avanti di questo passo, l'Academy dovrà istituire un Oscar anche per la categoria "mainagioia"...





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